25 dicembre 2013

L'allevameno del maiale

Ogni casa contadina aveva un suo spazio per il maiale. E' un animale onnivoro e il contadino ne approfittava per dargli da mangiare gli scarti di cucina e quanto restava dopo che dal latte erano stati estratti panna, burro, formaggi e ricotta.
Civiltà contadina preindustriale: le contadine germaniche ritratte (a Lipsia) in
questa foto del 1959 non differiscono molto dalle nostre delle terre alte alpine.
I prodotti finali ottenuti dal maiale erano il lardo, la pancetta, il sego o sugna, le
salsicce o luganeghe, lo speck, il sanguinaccio.
L’intero rito dell’uccisione, macellazione e lavorazione delle carni durava, a seconda
dei luoghi, due o perfino tre giorni. Coinvolgeva l'intera famiglia e si svolgeva a ri-
dosso del Natale. Il maiale era di fatto per i contadini di montagna una formidabile
assicurazione contro la fame, uno dei pochi modi (assieme ai crauti e al formaggio)
per conservare scorte alimentari sufficienti a traghettare la famiglia, compresi i
vecchi e i bambini, fuori dai rigori dell'inverno.
Una volta ucciso e dissanguato, il maiale veniva sottoposto a una doccia di acqua bollente che serviva ad ammorbidire il suo irsuto pelame per depilarlo con coltelli bene affilati.
Subito dopo veniva appeso e diviso in due. Si toglievano e si pulivano intestini, fegato, reni, milza e cuore.
👉La lavorazione della carne aveva l'obiettivo di conservarla a lungo, era insomma più che altro una tecnica di conservazione che utilizzava la salatura, l'affumicatura e l'insaccatura.
👉Per fare le salsicce la carne, opportunamente macinata e speziata, veniva insaccata nelle budella dell'animale, legata e messa in locali arieggiati, spesso previa affumicatura su fuoco di legna. Per evitare la formazione di sacche d'aria di tanto in tanto si punzecchiava il budello con uno spillo. In tempi lontani, il riempimento avveniva manualmente, con l’impiego di piccoli imbuti di legno, un lavoro che si protraeva per ore.
👉In ogni caso, una volta terminata la preparazione delle varie parti, la stagionatura e la conservazione definitiva avveniva nelle cantine, coi vari pezzi appesi al soffitto per evitare l'assalto dei topi.
In generale l'uccisione del maiale coinvolgeva l'intera famiglia e, anche se cruenta (ancora oggi ricordo con ribrezzo le urla dell'animale che intuiva quanto stava per accadere), era motivo di grandi festeggiamenti.

«Ma sempre e più di tutto è il maiale ucciso e insaccato al tempo della luna buona di dicembre che sa dare tranquillità e speranza quando neve, freddo e vento mordono il tetto. Persino quando la neve arriva troppo presto e poi si dilunga tanto che neppure i lupi trovano più da mangiare, il domestico maiale ci permette di restare al caldo della casa guardando dalla finestra i voli dei corvi, o di restare nella stalla a intrecciare vinchi, a far canestri, a lavorare assicelle di legno ben stagionate per costruire mastelle e secchie, mulinelli e arcolai, a impagliare sedie: lavori che sempre facevano i nostri contadini-artigiani. [...] da una decina d'anni non insacco più il maiale. Mi dispiace, anche perchè un tempo era come una festa. I figli sono diventati grandi, hanno le loro case e la loro vita. Comunque salami con l'aglio, cotechini con noce moscata e garofano, luganeghe e Leberwurst so dove trovarli buoni.»
(Mario Rigoni Stern, "Inverni lontani", Einaudi, Torino, 1999)

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